Vittorie.

Magari hai capito pure tu che l’autoassoluzione mi provoca l’orticaria. E non è che oggi non brindo perché ha vinto la DC, o ha perso il PCI. È proprio che non brindo a prescindere.

A darmi proprio il mal di stomaco non è neanche quest’idea che si possa vincere, mentre si sta giocando a picchiare i compagni di squadra nello spogliatoio, mentre l’altra squadra si fa i cazzi suoi e magari – spessissimo – è già in campo a tirare gol a porta vuota.


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Soglie.

Nel 1996 Douglas Coupland (autore di Generazione X e di JPod) scrisse un saggio sulla memoria, sugli anni appena trascorsi e, forse, anche su quelli a venire. Si intitolava Memoria Polaroid e a un certo punto faceva così:

memoria polaroid, douglas coupland

“Memoria Polaroid” di Douglas Coupland

«… a mano a mano che il nostro mondo sembra “accelerare”, le date di scadenza timbrate su quel qualcosa che “dà il senso di un’epoca” tendono a sovrapporsi sempre di più, oppure perdono importanza. Mi capita di trovarmi a ripensare con malinconia a quel periodo di neanche tre anni fa, per dire, in cui le camere da letto degli adolescenti erano tutte un florilegio di decalcomanie di margherite e il grunge dominava le piste da ballo. A un altro livello, penso ai tempi in cui l’esigenza di “interfacciarsi” non aveva ancora pervaso la forza-lavoro mondiale del suo immaginario onirico fatto di fobia del ritorno all’era pretecnologica e obsolescenza selvaggia, come succede oggi. In cinque anni ne è passata di acqua sotto i ponti. […] idee che un tempo venivano considerate “marginali” o “devianti” sono divenute dominanti nel dibattito quotidiano; la medietà è scomparsa; i diritti acquisiti si sono volatilizzati; l’ironia è ascesa al potere; un flusso ininterrotto di macchinari sempre nuovi ha generato rivolgimenti sociali sconfinati… e alla fine resta la sensazione che quanto è successo anche solo la settimana scorsa sia roba di dieci anni fa».

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Crocevia

Poi capita di trovarti a un incrocio e non sapere da che parte vuoi andare, esattamente. Gli anni passano, succede. Succede per tutti. A volte devi dire addio a persone che credevi insostituibili, a intere parti di te che ritenevi fondamentali.

A volte neanche lo fai, vanno via e basta. Resti con problemi irrisolti e frasi che avresti voluto dire e che poi non hai detto. Alcune restano, come velleità che un giorno sarai capace di mettere assieme, un giorno ti spiegherai: l’uomo, in fondo, è fatto per raccontarsi storie.

crocevia, incrocio Roma

Un incrocio romano. Piuttosto bimbominkia.

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Common People/Free as a bird

La vita a volte ti mette davanti a scelte che sembrano destini.

In un florilegio di coriandoli (e di schermate blu) il 1995 rimarrà legato all’uscita del primo sistema operativo 32 bit dedicato al pubblico: Windows ’95. Per me e per buona parte della mia generazione, quell’anno ha il brand Microsoft marchiato a fuoco e, di fatto, è di sua proprietà.

Succedevano tante altre cose, però. I tamarri dell’anno prima, oltre agli Oasis e ai Blur, esploravano nuove frontiere, per esempio. E i più arditi scoprivano i Pulp di Jarvis Cocker che quell’anno uscirono con Different Class e una serie di singoli impressionanti.

Quello che fece veramente il botto era “Common People” e, a ben vedere, è invecchiato molto meglio di altra roba del periodo.

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Live forever

Passata la sbronza grunge, che aveva lasciato un gran vuoto (specie quello nel lobo frontale di Cobain), il mondo cominciava a reclamare la sua dose di sano pop spensierato. L’Inghilterra non perse occasione di far vedere la sua faccia migliore: gente che girava in Lambretta, il ritorno della cool Britannia, Brett Anderson e i Blur. Roba che usciva dagli stereo di una nuova generazione di tamarri con le Clark’s.

Fu l’anno di Live forever degli Oasis.

E mentre gli Zapatisti del Subcomandante Marcos stavano rivoluzionando il modo di pensare alla rivoluzione, io perdevo definitivamente il controllo sulla mia anima e mi condannavo alla dannazione eterna.

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Black Orchid, scusate il ritardo

Non sappiamo cosa sentano le piante. Come percepiscano il mondo, in che modo si sentano vive, quali sensi abbiano. Non sappiamo neanche se effettivamente “sentano” qualcosa: eppure – come qualsiasi altro essere vivente – crescono, muoiono, si moltiplicano e si trovano male se le sposti. Certo non sono esseri senzienti, ma a volte sono in grado di raccontarci storie. E, talvolta, lo fanno maledettamente bene.

Certe storie ti colpiscono come una lama di rasoio, ti lasciano stordito e incapace di digerirle per settimane. In qualche modo rimangono latenti e cominciano a caratterizzarti, a essere parte di te e del tuo modo di ragionare.

black orchid, Neil Gaiman

Una vignetta da Black Orchid

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Make it easy

Ho sempre avuto grosse difficoltà a spiegare cosa facessi, per guadagnarmi da vivere. E, soprattutto, cosa mi piacesse. Ho messo passione nel mio mestiere perché ho capito fin da subito che era quello che amavo: eppure non sono mai stato capace di spiegarlo a mia madre, per esempio.

L’idea: web marketing for starters

Ma perché mia madre non capisce il mio lavoro? E perché non lo capiscono molti dei miei coetanei? L’idea di poter spiegare i fondamenti del lavoro di ogni webcoso che si rispetti è venuta a me e Eugenio un po’ per gioco, un po’ per provocazione: perché non creare una serie di 10 webinar che raccontassero cosa significa lavorare con internet e comunicare nel mondo della rete?

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All Apologies / Come mai

A dispetto del mondo del grunge che ribolliva sotto le suole degli stivaletti Cult di un’intera generazione, nel 1993 io cominciavo il catechismo. E ascoltavo le mie prime canzoni.

Nel 1993 la moda grunge imperversava ovunque: ricordo lucidamente uno dei miei cugini più grandi che andava in giro con gli improbabili camicioni di flanella, i jeans rotti e le cult che – solo una manciata di anni più tardi – gli avrei invidiato e, talvolta, fregato. Dagli stereo di mezzo mondo risuonavano nastroni su musicassetta con suoni iperdistorti (un po’ per il grunge, un po’ per la rozzezza delle registrazioni) che vomitavano Nirvana, Pearl Jam e Soundgarden a volume sparato.

Quell’anno la band di Kurt Cobain aveva tirato fuori In Utero e aveva vinto. Aveva proprio vinto.

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Fables, scusate il ritardo

Per una volta, in una recensione non voglio parlarvi male di qualcosa. Per una volta, voglio mettermi comodo e scrivere di qualcosa che mi è piaciuto tanto, tantissimo. Qualcosa su cui non posso neanche pensare di fare commenti acidi. Scusate il ritardo.

Due settimane fa, girando per Termini, in uno dei miei viaggi random verso il meridione, mi sono imbattuto in un vecchio amico: tra le pile dei Bonelli, vecchi e nuovi, spuntava inverosimilmente la scritta “Vertigo” e il logo di Fables. Mi sono venute quasi le lacrime.

c'era una volta fables recensione

Una delle tavole del fumetto di Bill Willingham

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